3 ago 2017

Tutto, proprio tutto, solo per un istante.

È mattina presto a Manali quando lasciamo l'hotel e scendiamo per salire in groppa alla nostra moto debitamente caricata la sera prima.
Il cielo è nuvolo, una bassa nebbia avvolge le montagne attorno al paese ed all'orizzonte in direzione del Rothang pass, un cielo nero il quale sembra la lavagna della mia scuola elementare ci attende.
Verrebbe voglia di disegnarci sopra un sole ed un cielo azzurro ma questi sono ricordi di un bambino cresciuto, ora possiamo sono affrontare la realtà è sorridere a tutto.
Avvio la moto, Gisella si accomoda dietro come sempre e, come sempre cita la frase che anni fa diede l'inizio ad un libro " ok puoi andare".
Attraversiamo le caotiche stradine di Manali alla ricerca della cosiddetta highway per il Rothang.
Le strade già invase dal fango generatosi dalle pioggia notturne mi danno la sveglia e mi parlano in anticipo di quello che sarà il mio guidare quotidiano.
Troviamo finalmente il bivio, una stretta e ripida salita asfaltata si lancia verso l'alto. 
Pensiamo di essere sulla strada giusta e quindi procediamo.
In assenza di indicazioni stradali occorre affidarsi all'istinto e forse, per questo, sulla moto che istante dopo istante iniziamo a conoscere, chi l'ha costruita ha pensato di aggiungere un importante optional.
Sulle nostre moto, ovvero quelle che abitualmente siamo abituati a condurre c'è ogni sorta di aggeggio tecnologico, dal navigatore, passando per la presa USB per scaricare i dati, sino ad arrivare al cruise control. 
Su Himma, una Royal Enfield, i progettisti hanno invece deciso di installare una bussola.....
Che cazzata penso io, poi ripenso al viaggio in Mongolia dove grazie alla bussola fummo in grado di tornare a casa, è da quel pensiero apprezzo l'optional.
Continuiamo a salire e ad un tratto avverto delle gocce d'acqua sul viso.
Chiedo conferma a Gisella per sicurezza, " secondo te piove ?".
Lei, dotata di ottimismo che talvolta cerca di stravolgere la realtà mi risponde " no, è l'umidità della nebbia".
Cinque minuti dopo, grazie ai famosi parachute caffè,ovvero una sorta di bar costruito sotto una baracca di pietre, legno e come copertura un telo che in origine era il paracadute recuperato dai militari inglesi dopo la guerra, siamo al riparo di una pioggia torrenziale con in mano il Masala, un tè con latte, cardamomo e pepe....
La nebbia di Gisella aveva deciso di trasformarsi in pioggia di Gianni. 
Siamo bagnati fradici e siamo diretti a 4000 metri di altitudine, un connubio non proprio auspicato.
Stiamo per circa un ora fermi in compagnia di una vecchietta che con in braccio un bimbo di qualche mese, incurante della pioggia, cerca di scopare il dehor del " bar " con una rudimentale scopa.
Quando la pioggia cala, ma non cessa, decidiamo di ripartire indossando le tute da pioggia sugli ormai zuppi vestiti con i quali eravamo partiti.
La strada diventa sterrata ed il fango è ovunque.
I camion indiani viaggiano sfrecciando in ogni senso di marcia, ci segnalano il loro arrivo con un frastornante colpo di clacson poi....sta a noi toglierci....loro non mollano.
Questa è la legge della foresta stradale indiana.
Il clacson salva la vita, il più grosso vince, il più piccolo deve cercare riparo fuori dal, già di suo, terribile nastro di pista chiamato strada.
Ecco quindi che in poco tempo Himma ed io diventiamo amici e scopro quanto sia brava del rifugiarsi sulla riva scoscesa della montagna o nel tuffarsi dentro ad un guado.
Un camion in senso opposto ci incrocia là dove non vi è fisicamente spazio per tutti e due.
Io punto la la moto verso sinistra dove la montagna sale, Himma si inerpica ma poi scivola con la ruota posteriore e il culo della moto scende verso valle lasciandoci appesi al manubrio, il camion passa, ci suona ma noi siamo bloccati. Il muso del camion ci sfiora ma la parte posteriore, più larga ci colpisce la borsa di destra. Sentiamo la moto scuotersi e siamo già pronti a saltare immaginando se la borsa dovesse mai restare agganciata al camion.
La fortuna ci aiuta e tolto un gran spavento e qualche graffio sulla borsa non accade nulla di più.
Raggiungiamo il passo, un 4000 che rispetto a quelli in previsione per i km a venire è poco più di un allenamento.
Un paio di foto per immortalare il momento, un abbraccio con due monaci tibetani in attesa di chissà cosa sotto una pioggia battente e ripartiamo tuffandoci verso valle.
Seguiamo il flusso dell'acqua che come un torrente riempie la strada.
Nelle nostre previsioni del mattino, saremmo dovuti arrivare a Sarchu, ma dopo 12 ore di guida nel fango e centinaia di camion sfiorati guardiamo l'ora e notiamo che sono già le 17 del pomeriggio.
Abbiamo percorso appena 140 km, siamo stanchissimi e bagnatissimi.
Ci troviamo a fondo valle, a "bassa quota " per queste zone.
Notiamo un campo tendato e decidiamo di passare li la notte.
La tenda, seppur spartana, ci sembra pulita.
Scarichiamo i bagagli, compreso le taniche di benzina di scorta e riponiamo tutto in tenda.
La benzina da queste parti è un bene raro visto che il rifornimento più vicino si trova a 375 km.
Ceniamo nel campo tendato, siamo gli unici ospiti.
Gli uomini del campo, le donne paiono non esserci in India, ci preparano un po di pane tandori ed una zuppa di gallina uccisa poco prima facendoci vedere se poteva andare bene.
Terminata la cena, entriamo in tenda esausti, il freddo è pungente e noi adagiamo il nostro sacco a pelo sotto le enormi coperte che ci hanno fornito.
Sollevando una di queste, un ragno grande come il mio pugno inizia a correre, forse disturbato dall'improvvisa luce e dagli sgraditi ospiti, ovvero noi.
Conoscendo la famosa fobia di Gisella per i ragni, mi scaglio sul padrone di casa e lo uccido con una manata nella speranza di non essere notato.
Gisella invece lo vede, mi guarda, mi chiede se fosse morto dopodiché, come se quel ragno fosse l'unico presente in tutta l'India, si complimenta e mi dice " ok ora dormiamo siamo stanchi".
Il freddo della notte a 3200 metri non ci sfiora sotto quelle coperte di lana di pecora e zampe di ragno, così al mattino siamo riposati e possiamo ripartire, obiettivo: altri tre passi, uno dei quali posto a 5200 metri di altitudine, per poi raggiungere Leh la cittadina cuore del buddismo in Ladakh a più di 340 km di distanza.
Salgo sulla moto determinato a raggiungerla, ma conscio che non sarebbe stato facile.
Ma come sempre dico, mai mollare e qualsiasi cosa succeda, sarà comunque una esperienza da gustare senza il rammarico di non aver adempiuto al progetto iniziale.
Non piove più, ma la temperatura è bassa.
Il freddo scalfisce i nostri volti avvolti solo in parte dai caschi che per l'occasione abbiamo deciso fossero aperti davanti.
Chissà cosa ci spinse a decidere per quel modello, chissà quale pensiero malsano ci pervase quel giorno visto che, per andare alle Canarie l'anno prima utilizzammo caschi integrali ovvero chiusi, e per andare in Himalaya invece....caschi da riviera ligure.....
La strada è pessima, sappiamo che avremmo incontrato dei guadi, 3 per l'esattezza.
Come sempre sono spaventato all'idea di immergere Himma, Gisella e me stesso dentro l'acqua.
In particolare quest'acqua scura, tumultuosa, tipicamente l'acqua che arriva dai ghiacciai zeppa di rocce e apparentemente nemica.
Di guadi ne abbiamo fatti tanti in passato, in Islanda, in centro America, in Mongolia, ma ogni volta il cuore mi batte forte.
Dopo circa 70 km di strada......tecnicamente definibile una merda....arriviamo al primo guado.
Sono impaurito ma nel contempo confido su Himma.
Gisella scende ed io ,senza indugi , ingrano la prima e parto.
La ruota davanti si immerge ed io sento l'acqua arrivarmi alle ginocchia.
La cosa più sbagliata da fare è fermarsi, quindi accelero, la moto si scuote a causa delle rocce nascoste sotto la melma grigiastra e a causa della corrente del torrente che scende vorticosa dalla montagna.
Sono in qualche misura onorato di avere sotto di me il frutto di un ghiaccio millenario, che giace a 8000 metri ed infine regala la vita a milioni di persone diventato acqua.
Detto ciò farei volentieri a meno di esserci immerso dentro.
Supero il guado e mi sento forte. Accarezzo Himma e corro incontro a Gisella la quale, immersa anche lei fino alle ginocchia, cerca di vincere la corrente mettendo un passo davanti all'altro.
Risaliamo in moto, e pochi km dopo un secondo guado ci attende.
Carico di adrenalina e forte dei complimenti ricevuti, non faccio più scendere Gisella e neppure mi fermo un attimo per analizzare la miglior traiettoria da compiere, mi immergo e basta.
Prima marcia dentro, acceleratore in mano e via !!
Sono al settimo cielo anche se marcio di acqua sino ai gioielli di famiglia.
I km si susseguono e superiamo anche il terzo ed ultimo guado.
Il cielo diventa parzialmente terso e si scorgono le cime delle montagne che ci circondano.
Noi siamo a 4200 metri di altitudine e le montagne attorno a noi ci appaiono come se, nelle nostre valli a 1000 metri di altitudine, osservassimo il Mon Viso. 
Credo quindi che siano cime altissime, quelle cime delle quali il libro letto da bambino narrava.
La strada sale verso il passo a 5200 metri, non sarà il più alto che affronteremo in questo viaggio ma è comunque una altitudine alla quale non siamo abituati, per questo portiamo rispetto.
Beviamo tanto per combattere la disidratazione che a queste altitudine ti coglie nonostante il freddo.
La carenza di ossigeno genera effetti pericolosi e noi dobbiamo cercare di evitarli o perlomeno avvertirli in tempo.
Mano mano che saliamo iniziamo ad avere forti mal di testa, il fiato si fa corto e ci rendiamo conto che iniziamo ad avvertire il male di montagna.
Himma da parte sua inizia ad avere chiari segni di impoverimento delle prestazioni, già di suo non proprio esaltanti...
Arriviamo in cima, un vento gelido ci taglia gli occhi, scaglie di ghiaccio ci perforano la faccia.
Fatichiamo a camminare e a respirare bene, ma scendiamo comunque dalla moto per una foto veloce.
Chissà se la moto ripartirà, penso io mentre Gisella mi scatta una foto.
Inizio a sentire una gra senso di nausea, nonostante non mangi nulla dalla sera prima ho paura di vomitare. Per fortuna avendo il casco versione Riviera ligure, dovesse succedere, non riempirei il casco.
Occorre scendere più in fretta possibile, occorre scappare per rimettere il nostro corpo in condizioni di sicurezza.
Himma riparte e noi, nonostante la testa pulsi come se il cervello voglia uscire, ingraniamo le marce e ci  tuffiamo a valle.
Fatichiamo a renderci conto della meraviglia che ci circonda. 
Le montagne cambiano colore ad ogni chilometro e siamo senza fiato forse più per questa magnificenza che per la carenza d'ossigeno.
Il Ladakh ha in serbo per noi una sceneggiatura naturale che rapisce gli occhi e la mente.
Pare essere gelosa della sua bellezza anche perché, costringendo la gente a viaggiare veloci per sfuggire all'altitudine, possiamo solo ammirarla di sfuggita, senza potersi fermare neppure un secondo per rapirne una fermo immagine.
Arriviamo a quota 4000 metri ed il nostro corpo inizia a riprendersi.
La testa duole ancora tanto ma riusciamo a respirare ad anche il senso di nausea svanisce.
Mancano ormai sol più 70 km a Leh, la strada finalmente diventa asfaltata è da modo a Gisella, al sottoscritto e pure ad Himma di rilassare le membra viaggiando come se fossimo sui colli alpini di casa nostra.
Arriviamo a Leh 3200 metri di altitudine, praticamente al mare.... da dove ora vi scrivo all'ombra di un monastero tibetano.
Non c'è modo di telefonare, non c'è modo di collegarsi ad internet e tutto ciò, per un secondo ci deprime un po.
Poi osservo la gente che vive in questi luoghi i quali, in inverno scendono a -30 gradi di temperatura.
Vivono con scorte di cibo per due anni, così da poter sopravvivere in qualsiasi condizione.
Vivono di poco, ma vivono sorridenti e felici.
Non dico sia facile, non dico che vorrei fare cambio con la mia vita, ma dico....e non lo dico io bensì lo dicono i fatti, che vivono !
Oggi resteremo fermi a Leh, sia per acclimatarci ancora in previsione della tappa di domani, dove salire al 5600 metri di altitudine per superare il passo carrozzabile più alto al mondo, sia per metabolizzare i sorrisi e la pace interiore che questi luoghi e queste persone sono in grado di trasmettere.
Domani ripartiremo, ingraneremo la prima marcia e sarà ancora viaggio, sarà ancora scoperta di questo mondo che si lascia scoprire ed ammirare solo da chi ha il coraggio di mettere in gioco tutto, persino se stessi se necessario.
Salire lassù, dove la felicità è un respiro pieno di ossigeno, dove tutto ciò che conta è imparare a sentire se stessi, comprenderne la forza e sopratutto le debolezze.
Saliremo lassù in cerca del punto più alto grazie al quale lanciare un pensiero al mondo di sotto, un pensiero di amicizia, un sorriso senza secondi fini ed un abbraccio stretto come le montagne attorno a noi sanno fare.
Saliremo lassù per restarvi forse solo un istante, quell'istante che vale un viaggio, vale una sfida, vale forse la vita.















3 commenti:

  1. Che viaggio fratelli...MAI MOLLARE!!! State attenti xk quel racconto mi ha fatto immaginare quello che avete provato...ma nulla mai, vi fermerà...un abbraccio ed un.sorriso, da Sandrine e Daniele.

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  2. Come sempre una lezione al mondo sul significato del viaggiare... Verso l'infinito e oltre!
    Un abbraccio
    Tommy

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  3. Go Gianni go!!!cavolo che bel giro e che Bella avventura!!fa anche piacere vedere che le royal enfield riescono a reggere I tuoi ritmi anche quando sono a corto di ossigeno!!ciao da beppe bosco

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